Mongolia- La terra del grande cielo blu

Diario di 4 giorni in questo paese sterminato, tra antiche tradizioni, storia, religione, e una natura senza confini

La sveglia, a Irkutsk suona all’alba, in stazione intorno alle 7 del mattino ci aspetta quello che dovrebbe essere, sulla carta, il treno di gran lunga più spettacolare e più atteso del viaggio. E’ il treno Irkutsk – Ulaan Baatar. Perchè dovrebbe essere il più bello? Perché costeggia per un lunghissimo tratto il Lago Baikal, regalando i panorami più speciali di tutta la Transiberiana, per poi deviare verso la ferrovia Transmongolica.  A Ulan Udè si cambia locomotiva, in Mongolia la ferrovia non è elettrificata. Si passa il confine, si timbrano i passaporti. Si entra nelle immense pianure Mongole. Abbiamo organizzato tutto in modo da prendere questo treno durante le ore diurne, per godere a pieno del mondo attraverso il finestrino.

Il destino, tuttavia, aveva riservato ben altro per questa tratta, che si è rivelata una vera e propria odissea. Cercherò di non usare termini troppo diretti per descrivere quanto accaduto. Appena partiti risulta evidente che durante il soggiorno sul Lago Baikal, è entrato qualcosa nel nostro organismo che avrebbe fatto tanto meglio a restarne fuori. Il risultato è che passo gran parte del tragitto da Irkutsk a Ulan Ude peregrinando tra lo scompartimento e il piccolo, angusto, sporco e fetido bagno del mio vagone. Talvolta gli do le spalle, talvolta lo guardo dritto negli occhi. Forse forse è ancora meglio dargli le spalle, difficile scegliere. Grondo di sudore, sono febbricitante, e passo tutto il giorno agonizzando nel mio scompartimento. Andrea, impietosamente, mi scatta una foto mentre inconsapevolmente ho assunto una posizione tipo “Sindone”. Ovviamente mi perdo tutto lo spettacolo che passa dal finestrino, ma non sono l’unico, in quanto il fumo degli incendi di cui vi parlavo nell’articolo precedente era ancora più fitto dei giorni scorsi, e il treno attraversava un paesaggio simile alle campagne piemontesi nelle mattine autunnali. Nebbia. Nient’altro.

Nel pomeriggio arriviamo a Ulan Ude, dove lentamente inizio a riprendere conoscenza, dopo aver sfiorato di un niente lo svenimento. Mentre ritorno nel mondo dei vivi, lentamente il demone del lago Baikal inizia a impossessarsi di Andrea, a sua insaputa. Verso il tramonto arriviamo al confine, dove, come in ogni fermata, i bagni del treno vengono chiusi. Le stazioni di confine però hanno il problema che la fermata dura 2 ore, e che si è letteralmente imprigionati sul treno. E’ proprio qui che il povero Andrea inizia ad avere nausea, mal di pancia. Difficile scegliere un momento peggiore, anche perché il treno non ha finestrini apribili, e l’aria condizionata non funziona. Cerchiamo la comprensione e l’aiuto dei due responsabili di carrozza, rispettivamente una donna infame che al pomeriggio voleva farmi pagare acqua e zucchero mentre le stavo svenendo davanti, e che credo non abbia mai sorriso in vita sua, e un uomo decisamente più comprensivo, ma comunque entrambi che non parlano una parola di inglese. La donna guarda Andrea con una faccia che indiscutibilmente significa “vòmitati addosso”, l’uomo, in maniera fantozzianamente più “umana”, gli suggerisce di andare a vomitare nel passaggio tra un vagone e l’altro, possibilmente cercando di centrare il buco attraverso cui si vedono i binari. Andrea, con tempra invidiabile, sopprime la propria nausea e attende stoicamente le procedure di frontiera, che stavolta, oltre alle solite perquisizioni, includono anche i cani. Ci stupiamo un ultima volta di come i russi diano sempre l’impressione di essere arrabbiati, figuriamoci in frontiera.

Dopo due ore il treno riparte, per poi fermarsi subito altre due ore nella stazione di Sukh Baatar, la frontiera di ingresso in Mongolia lungo la ferrovia. I poliziotti Mongoli sono distanti un abisso da quelli russi. Sono sorridenti, dal viso dolce e i tratti rassicuranti. Dopo altre due ore fermi ripartiamo nel cuore della notte, per risvegliarci all’alba alla stazione di Ulan Baatar. Non mangiamo da più di 24 ore, delle quali abbiamo patito ogni singolo minuto, ma in qualche modo troviamo la forza di scendere dal treno. Al binario ci aspetta la nostra guida: si chiama Turùu, ha un viso dolcissimo, come gran parte dei mongoli, ed è fondamentalmente un ragazzino, ha 22 anni, ma va detto che in Mongolia a 22 anni sono già ben più svegli dei nostri trentenni, considerando che in media a 5 anni iniziano a cavalcare un cavallo da soli nella steppa. Noi, se va bene, una bici con le rotelle sotto casa e col papà che ti tiene una mano sulle natiche.

Altri stili, altre zone di mondo. La Mongolia è un paese dove la metà della popolazione, ancora oggi, è nomade, e vive di allevamento e pastorizia spostandosi attraverso le sterminante terre di questo paese seguendo il ritmo delle stagioni. Le tende mongole sono pertanto il simbolo nazionale, persino il timbro sul nostro passaporto ne riprende la forma caratteristica. Si chiamano Ger (pronunciato “Gher”), ma in Europa le conosciamo con il loro nome russo, ovvero “Yurta”.

In Mongolia, al di fuori delle 2-3 grandi città, questo tipo di tenda è il tipo di abitazione più diffuso. La porta della Ger, per tradizione, deve essere sempre posizionata verso Nord, e al suo interno il lato sinistro è dedicato alla donna, e il destro all’uomo.

Una tradizionale “Ger” Mongola

Usciamo da Ulaan Baatar e ben presto ci ritroviamo immersi in praterie virtualmente infinite, dove l’orizzonte sembra dieci volte più lontano del solito. Non c’è un solo albero e non si incontrano segni di civiltà per centinaia di chilometri, se non, appunto, le Gher e qualche mandria o gregge di capre, cavalli, mucche, cammelli. Sembra di essere dentro la pancia di un enorme tartaruga, dove il ventre piatto è il verde prato sotto i nostri piedi, e l’enorme guscio è il “Grande Cielo Blu”, espressione che accompagna il nome della Mongolia da sempre.

Dal punto di vista religioso, la Mongolia, è da secoli orientata al Buddhismo di stile Tibetano, ma ha le sue radici nello sciamanesimo,ovvero il culto di divinità ed entità del mondo naturale, che hanno in comune la sottomissione e un’entità superiore che controlla ogni cosa che accada sulla terra, ovvero il “Grande Cielo Blu”. Questa espressione sopravvive ancora oggi come simbolo del paese: persino uno dei più moderni e scenografici grattacieli di Ulaan Baatar (U.B. nello slang Mongolo) è stato chiamato “Blue Sky”. Questo tipo di culto è ancora praticato in Mongolia e tutt’altro che rinnegato dalla maggioranza Buddhista, tant’è che è frequentissimo trovare lungo la strada dei cumuli di pietre su cui sventolano nastri colorati, a simboleggiare i vari elementi della natura. Vengono solitamente posizionati in luoghi sacri, e la tradizione vuole che chi sta facendo un lungo viaggio debba fermarsi e compiere 3 giri in senso orario intorno a questi cumuli lanciando di tanto in tanto altri sassi nel mucchio. Questo è di buon auspicio, e ovviamente non ci sottraiamo alle usanze locali.

Raggiungiamo il nostro campo tendato per l’ora di pranzo: finalmente cibo dopo 40 ore di digiuno! Ci prepariamo per andare a passare il pomeriggio sulle dune di Elser Thasarkai, un piccolo deserto sabbioso con dune di altezza modestissima, che di anno in anno cambia la sua posizione in base ai capricci del vento.

Quando si parla di deserto e Mongolia, si parla di Gobi, essenzialmente, ma il deserto, quello vero, è troppo lontano da U.B. per la durata del nostro soggiorno, e ci accontentiamo di questo “assaggio” di sabbia.

Per pochi Tugruk (moneta locale) dei ragazzini ci fanno cavalcare un cammello e un cavallo. Il cavallo ha una delle selle più scomode che si siano mai viste indossare a un quadrupede, ma qui in Mongolia si usa così. Cavalcare un cavallo è considerato fondamentale nella cultura di questo paese, come vi dicevo i bambini iniziano a farlo in autonomia in età prescolare, potrebbe essere l’equivalente della nostra bicicletta.

Il deserto, per quanto piccolo sia, è in qualunque parte del mondo un simbolo di pace. Il silenzio è interrotto solo dal verso di qualche cavallo in  lontananza. Il cielo sopra di noi, semplicemente immenso. Alle nostre spalle il paesaggio sembra essere una sintesi grafica della Mongolia: Deserto, montagne, prati, laghi, cavalli. Tutto nello stesso campo visivo.

E’ un momento dove la natura con la sua forza maestosa e silenziosa tenta di ricaricare i nostri corpi stanchi e debilitati dai malanni dei giorni precedenti, ma più di lei ci riesce la cucina mongola, una delizia per gli amanti della carne di agnello. La sera gustiamo una specialità locale, i “puzz”, degli enormi ravioli ripieni di carne di agnello macinata. I mongoli usano mangiare questo piatto durante tutto l’anno, ma specialmente in occasione del loro capodanno, che avviene intorno ai primi di febbraio, e che per loro significa “festeggiare il mese bianco”, ovvero il mese dove tutta la Mongolia è ricoperta da un enorme manto di neve ed è stretta in una morsa di gelo capace di spingersi tra i -30 e i -40 gradi. L’inverno in Mongolia è infatti la grande sfida dei nomadi, se dura un mese di troppo i danni subiti possono costringere molti nomadi a migrare nelle periferie fatiscenti di U.B.

La mattina successiva ci trasferiamo verso Kharkhorum, l’antica capitale dell’ Impero Mongolo. La strada, in Mongolia è un concetto davvero relativo. Sì, c’è una strada asfaltata da seguire, ma Rencin, il nostro autista, devia spesso e volentieri lungo piste sterrate a mala pena accennate che si perdono nelle infinite steppe che si dipanano al nostro orizzonte. Durante le ore passate a rimbalzare all’interno dell’abitacolo chiacchieriamo con Turùù e Rencin, si parla di abitudini europee, e abitudini mongole. A turno cantiamo canzoni italiane e canzoni mongole. Cantiamo anche i nostri reciproci inni nazionali, e vi stupirà scoprire quanto bello sia l’inno mongolo. Scopriamo che la canzone italiana più conosciuta in Mongolia sembra essere “Felicità” di Albano e Romina. Non possiamo non ridere, alla notizia. Una cosa che invece fa molto ridere i Mongoli è quando si prendono in giro i cinesi. I Mongoli detestano i Cinesi, per mille e una ragione storica, non ultima la frustrazione odierna di doverne dipendere per l’importazione di materie prime. E così quando racconto ai miei due nuovi amici di un turista cinese che sulle sponde del lago Baikal fece partire uno sputo di dimensioni paragonabili al Molise a due centimetri dal mio orecchio, loro scoppiano in una risata incontenibile.

Arriviamo sul suolo dove un tempo sorgeva Kharkhorum, capitale di uno degli imperi più grandi della storia. Oggi non ne resta nulla, se non due delle quattro statue di tartaruga poste nei 4 punti cardinali intorno alla città. Sul suolo di Kharkhorum si trova oggi una cittadina rurale e un museo che racconta la storia degli imperi della Mongolia: è interessantissimo scoprire che ai tempi di Gengis Khan (al secolo Temujin) questa città garantiva la libertà di culto a tutti, e ospitava tra le sue mura Chiese, Moschee e Templi Buddhisti.

Il plastico che riproduce l’antica Kharkhorum. Sulla destra si vedono la moschea e la chiesa della città.

Parliamo di un periodo storico dove al di fuori dei confini dell’impero si combattevano le crociate…punti di vista diversi, del resto l’impero Mongolo è passato alla storia per la pace e l’armonia che regnavano al suo interno. Forse non si può dire lo stesso delle terre che si trovavano ai confini con un impero in costante espansione. La storia dei Khan (da Gengis a suo nipote Khubilai) si intreccia con un mio recente viaggio a Istanbul, in Turchia, dove ancora oggi si trova una chiesa dedicata a Santa Maria dei Mongoli, una donna che andò a vivere presso i nemici che minacciavano l’invasione dell’Anatolia per dissuaderli e ritardare le loro mire espansonistiche…non si sa come sia andata la storia, sta di fatto che i Mongoli, a Costantinopoli, non ci arrivarono mai, cedendo quindi la palma di “impero più esteso della storia dell’umanità” all’impero degli Zar di Russia, per un pugno di chilometri quadrati.

Dopo l’età aurea che è intercorsa tra Gengis Khan e suo nipote Khubilai Khan, l’impero si disgregò, e la Mongolia uscì per sempre dal panorama della grande storia mondiale, ridotta a territorio conquistato da altri imperi, fino all’indipendenza raggiunta meno di 100 anni fa, e da secoli legata al ricordo del grande Temujin, le cui statue campeggiano in tutte le città del paese e il cui volto è impresso in ogni banconota.

Sulle ceneri di Kharkhorum sorge poi l’antico monastero di Erdene Zuu, il nostro primo vero impatto con il Buddhismo in questo viaggio. Il monastero si erge all’interno di una cinta muraria lungo la quale sono allineate 108 stupa, numero sacro per il Buddhismo. Cos’è una Stupa? E’ una specie di “torretta”, elemento chiave di ogni luogo sacro Buddhista; ce ne sono di diversi tipi, lievemente diversi tra loro nelle varie parti del mondo, ma hanno tutti in comune un simbolismo importante nelle sue componenti (es. la base quadrata rappresenta la terra, e via così per gli altri elementi) e lo scopo, ovvero contenere reliquie e resti di monaci importanti accompagnate dai testi sacri. In Mongolia non è insolito trovarne in cima a colline circondate da chilometri di nulla assoluto, ma grazie alla loro presenza possiamo sapere di trovarci in un luogo sacro.

Una Stupa immersa nel paesaggio Mongolo

Tornando a Erdene Zuu, all’interno dell’area del monastero sorgono diversi templi, costruiti secondo un mix di stile mongolo e cinese, tutti di dimensioni piuttosto ridotte, tutti contenenti decine di statue, dipinti e raffigurazioni del Buddha, ognuna diversa in base alla sua funzione: ogni buddhista si reca a pregare nei pressi del Buddha relativo al suo bisogno (il Buddha della salute, della ricchezza, eccetera).

Il Buddha protettore contro gli spiriti malvagi

I testi sacri sono scritti in una lingua non comprensibile se non ai monaci istruiti, il sanscrito tibetano, per questo motivo i papiri vengono racchiusi in grossi cilindri, che i fedeli fanno girare a colpi di mano, sostituendo con questo gesto la lettura delle scritture.

I rulli per la preghiera

All’interno del monastero c’è poi una Ger dove i monaci si rendono disponibili alla popolazione per leggere e spiegare i testi sacri o per dare consigli di vita, e poco oltre si trova un tempio in stile tibetano, al cui interno i piccoli monaci vengono addestrati. Al nostro arrivo vediamo due bambini di 8-10 anni circa avvolti nella loro bellissima tunica rossa e arancione. Hanno il compito di gettarsi a terra, sdraiarsi completamente scivolando su un panno rosso, per poi tornare in ginocchio e rialzarsi. Lo devono fare 1000 volte, ogni giorno. Non facile, la vita del giovane monaco.

Nei dintorni del monastero si trovano colline da cui si gode di una vista semplicemente mozzafiato, probabilmente il miglior panorama della nostra tappa in questo paese così immenso, sconfinato, dove il concetto di “niente” assume significati a noi fino ad oggi praticamente sconosciuti.

L’indomani ci rimettiamo in marcia, guidando ore tra strade e piste nella steppa, incrociando i veri abitanti e padroni morali di questo paese: cavalli, mucche, capre, cammelli. Tutti intenti a mangiucchiare qualche erba, o a cercare pozze d’acqua dove abbeverarsi.

La nostra meta è oggi il parco nazionale di Khustai, una grande riserva protetta famosa essenzialmente per essere abitata dall’unica specie al mondo di cavalli selvatici. La storia di questi animali è curiosa: ai primi del 900 alcuni di questi animali furono portati in alcuni zoo del Belgio e della Polonia, ma negli anni’60 si sono estinti, in Mongolia. Negli anni ’90 un gruppo di ricercatori ha deciso di reintrodurre la specie nel loro habitat naturale, così sono stati presi i discendenti dei cavalli “deportati” in Europa un secolo prima e riportati in questa riserva naturale. Si chiamano cavalli Takhi, o cavalli di Przewalskii. Ad oggi si contano circa 200 esemplari, divisi in branchi, come ogni animale selvatico.

Un cavallo Takhi

Non sono addomesticati, assolutamente impossibili da cavalcare, e si distinguono per la loro struttura massiccia (ricordano vagamente le zebre) e per avere una criniera corta e a spazzola. Cavalli Punk, si direbbe. Verso il tramonto ci appostiamo nei pressi di uno dei pochi ruscelli della zona, aspettando le famiglie di cavalli che vengono ad abbeverarsi. Non si fanno attendere troppo, li guardiamo in un silenzio interrotto solo dai click delle macchine fotografiche di altri turisti, me incluso. E’ stata una sorpresa, in sincerità io pensavo che “dopotutto son comunque dei semplici cavalli”, della serie che se non ti dicono che sono selvatici mica ci dai tutto questo peso…ma la realtà è che quando si è nella natura, nel silenzio, sotto la luce di un tramonto, anche una cosa apparentemente banale mostra il suo lato affascinante, mistico, poetico.

Rencin prende il mio diario, e ci disegna sopra un cavallo. Turùu guarda gli animali in silenzio, e dice che siamo fortunati perché molti turisti vengono fin qua senza riuscire a vederne nemmeno un esemplare, noi ne contiamo circa 20 davanti a noi. Andrea si gode la poesia del momento.

Di sera, dopo la nostra immancabile cena a base di derivati di capra e agnello, torniamo laddove eravamo stati interrotti dalla nostra compagna di viaggio logorroica sul treno per Irkutsk: gli scacchi, stavolta nella loro versione Mongola. Già perché gli scacchi in Mongolia sono diversi. Non aspettatevi torri, alfieri, regine e pedoni: ogni pedina ha una raffigurazione diversa, in accordo alla storia Mongola, ad esempio la torre è una grande Gher su ruote. Come quella di Gengis Khan, che veniva trainata dai buoi nei suoi viaggi, e che si trova sulla banconota da 500 Tugruk. L’alfiere, è un cammello. Il re è un grande sovrano anziano seduto sul trono, la regina è un leone (simbolo di forza nel Buddhismo) ma a volte è rappresentato come un cane feroce o un giovane sovrano. I pedoni sono delle pecore piccole, oppure dei cuccioli dell’animale con cui viene rappresentata la regina, questo perché  ognuno di loro è potenzialmente una regina, qualora riuscissero a raggiungere il fondo della scacchiera. L’unico pezzo uguale ai nostri, ovviamente, è il cavallo, che cavallo resta anche in Mongolia.

Va da sè che giocare a scacchi con pedine così diverse è un bel problema, si fa spesso confusione. Io e Andrea sfidiamo a turno Turùu, ma questa versione casalinga di “Italia-Mongolia” finisce in sostanziale parità. Prima di dormire un’ultima volta nella mia Ger approfitto del primo vero cielo stellato della nostra tappa per giocare un po’ con la macchina fotografica….è sempre divertente fare qualche Startrail. Rencin, tra le altre cose è un grande appassionato, e gli spiego come fare una foto come questa.

All’alba del nostro quarto giorno in Mongolia ci dirigiamo verso la capitale, Ulaan Baatar, città tendenzialmente sporca che si fa subito notare per una caratteristica: il traffico. Ingorghi di traffico a ogni incrocio, siamo testimoni di scene straordinarie. In sintesi, l’anarchia più assoluta. Semafori, precedenze, strisce pedonali, sono puri orpelli e inutili ornamenti di strade dove vige la legge del più forte, e di quello che ha meno paura e frena più tardi. Siamo ben contenti di scoprire a piedi quel poco che ha da offrire questa città, ovvero il grande monastero Gandantegchinlen.

Al suo interno si trova il tempio contenere la più grande statua di Buddha al mondo, tra quelle che si trovano all’interno di un edificio. E’ alto 26 metri, lo guardiamo carichi di ammirazione, è semplicemente magnifico.

Pare che all’interno questa statua sia vuota, e che al tempo della costruzione sia stata riempita con reperti e documenti relativi alla storia della Mongolia, come eredità per i posteri. Intorno al gigantesco buddha ci sono i soliti cilindri contenenti le scritture, che i fedeli fanno girare con fare abbastanza superficiale e distratto, alcuni senza interrompere la propria conversazione telefonica, altri mentre mangiano, come se fosse un rotolo qualunque. Questo atteggiamento noncurante nei confronti della religione da parte dei locali frequentatori del tempio ci stupisce, ci saremmo aspettati una partecipazione più intensa.

Il monastero si compone poi di altri templi che ahimè non ci è possibile visitare per via dell’orario in cui capitiamo, e ci dedichiamo quindi all’altra grande attrazione della città, ovvero la sua grande piazza centrale, un tempo chiamata piazza Sukh Baatar in onore di uno dei principali promotori dell’indipendenza della Mongolia dalla Cina nel 1919, e della sua costituzione come stato comunista satellite della Russia. La statua di Suk Baatar campeggia in centro alla piazza, ma è nel colonnato del palazzo del governo che si trova la statua che rappresenta il personaggio cui la piazza è stata dedicata da circa 4 anni a questa parte. Non c’è bisogno di avere una grande fantasia per indovinare di chi si tratta, ovviamente è Gengis Khan, e chi se no, del resto se non fosse per lui probabilmente gran parte del mondo non sarebbe nemmeno a conoscenza dell’esistenza di un enorme paese chiamato Mongolia, sempre assente nei grandi scenari storici internazionali dell’era moderna, e oggi grande cenerentola del nord-est asiatico schiacciata nella morsa di due giganti politici ed economici, la Russia e la Cina, da cui la Mongolia dipende economicamente, ma che minacciano la sua indipendenza.

La statua di Gengis Khan in centro a Ulaan Baatar

La Mongolia si divide tra una sorta di frustrazione nella grande competizione internazionale e una grande pace e consapevolezza del proprio spirito nazionale. Metà nazione nomade, metà incastrata in poche grandi città. Metà legato alla grande tradizione di comunione con i ritmi della natura, metà intrappolato in un ambizione di modernità in stile “voglio e non posso”, che probabilmente non è in alcun modo scritta nel destino di un paese con queste caratteristiche, che indiscutibilmente costituiscono gran parte del suo fascino.

Lascio la Mongolia con la sensazione che dalle tradizioni di questo paese ci sarebbe tanto da imparare in termini di rapporto uomo-natura, e che forse, in un mondo più giusto, questo popolo potrebbe liberamente godere delle sue immense praterie e della musica del vento nel deserto senza dover vivere con l’ansia di non ricevere petrolio dai Russi e materie prime dai Cinesi, e senza la paura che la propria delicata natura venga un giorno sopraffatta dalla forza bruta dei suddetti vicini.

Il mio ultimo ricordo di questo paese è un’inaspettato spettacolo di fuochi d’artificio che va in scena su Piazza Gengis Khan, poi alle prime luci dell’alba la sveglia suona, e alle 7 del mattino siamo in stazione, dove al binario 1 ci aspetta l’ultimo treno del nostro infinito viaggio. E’ tutto verde, il mio colore preferito. E’ il treno Ulaan-Baatar – Beijing.

Pechino è a una sola notte da qui.

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